Racconto apparso sul quotidiano «Il Tirreno» il 9 settembre 2001 “La grande dimora del Marajà Villa Argentina”
Villa Argentina ha sempre rappresentato, per me, un sogno proibito; forse perché a pochi passi da lei sono nato, e ancor più vicino ho sempre abitato, se non concretamente, in spirito senz’altro. Nel senso che, pur avendo vissuto per la maggior parte della mia vita lontano da Viareggio, si trattasse di Roma, Milano, o Londra, ho sempre considerato mia unica vera abitazione quella via- reggina.
Nessun luogo mi è stato altrettanto familiare della villa che sta all’angolo di casa mia. A cominciare dalla prima infanzia. Meta delle prime passeggiate con mia madre essendo la pineta di ponente, era giocoforza, per noi provenienti da quella che si chiamava una volta, via del Giardino, ora via Fratti raggiungerla passandovi davanti. Il che accadeva almeno quattro volte al giorno. Ma anche più tardi, ormai ragazzino e poi adolescente, quando, con i compagni di gioco, in pineta ci riunivamo per sfidarci a rubabandiera, o per dare i primi calci a una palla, sempre la villa esercitava su di me un richiamo frammisto di mistero, seduzione, e al contempo d’irraggiungibilità; come di una realtà che mai potremo attingere. Soprattutto in certe ore, i riflessi che il sole accendeva sulle piastrellature e le ceramiche delle facciate, esaltavano i verdi, i gialli, i blu, i lilla, gli ocra, mi accecavano con i loro barbagli, accrescendo, ai miei occhi, la preziosità e di conseguenza l’inaccessibilità di quella costruzione. Particolarmente nell’ora del tramonto, quando il fulvo cupreo dei raggi sopra i pini incendiava ve- trate di porte, finestre e logge, e un tripudio d’ori si perdeva in una tiepida, azzurrina, dolcissima infinità, sentivo che quella costruzione apparteneva più alla sfera dei mondi iperurani piuttosto che a quello, assai più modesto, dei caseggiati che le sorgevano intorno. Emanava, infatti, la villa, al di là della sua cospicua mole, che già la isolava dalle altre, un incanto tutto particolare, intriso di esotismo e orientalità, e per me, data la mia età, anche di enigmaticità, e segretezza. (O non era l’Oriente, forse, tutto turbanti e veli, tuniche e caffettani, che, a parte gli occhi, nascondevano la persone da capo a piedi, a rappresentare, nell’immaginario popolare, e prima della seconda guerra mondiale, l’assenza stessa dell’arcano?)
Ricordo, infatti, risalendo ai miei primi anni di vita, 3 o 4, di aver visto la villa sempre chiusa; quindi disabitata. Al punto che era portato a pensare che i suoi padroni non fossero persone come noi, ma esseri particolari, appartenenti sì a qualche specie umana, ma dotata di attributi e doni infinitamente superiori ai nostri più affinati; insomma ancora umani certamente, ma perfetti. Di una perfezione che li preservava da malattie e guai, da cui era affetta l’umanità tutta, a quanto potevo giudicare. Ad esempio il bisogno di soldi, che sembrava rappresentare il primo impegno di tutti gli uomini e le donne che conoscevo. Mentre per me i padroni della villa erano liberi da questi assilli. Loro avevano tutto senza dover ricorrere al denaro. Probabilmente non ne sapevo nemmeno l’esistenza, o lo consideravano un accidente di coloro, infine, più o meno dei sottosviluppati, che senza di esso non sarebbero potuti vivere.
La perfezione includeva anche l’immortalità? Di questo non sono sicuro, ma, ripensando a quei miei primissimi anni, non posso escluderlo. Quanto sopra faceva si che io non fossi affatto geloso di loro, né invidioso. Mi pareva naturale che, a causa della loro perfezione, disponessero di una dimora così eccelsa, e ammantata di un’aura tanto rarefatta rispetto a quelle di noi comuni mortali.
Non ho memoria delle innumerevoli volte che mi sono fermato a sbirciare tra i moduli di cemento, i quali, disposti a riquadri, e poggiati su un solido basamento alto più di mezzo metro, costituivano la recinzione da due lati, della villa. Mia madre mi portava via, perché diceva, non stava bene spiare gli altri. Tanto meno potevo sostare davanti al cancello principale da dove, sia pure a fatica, a causa delle piante che a me parevano fitte e grandi come quelle di una foresta, si intravedeva un po’ del piano inferiore. Ma i quasi immortali dov’erano mi chiedevo. Era possibile che, come sosteneva mia madre, di tanto in tanto arrivassero, se non altro per dare un’occhiata a quella loro inarrivabile proprietà? Ipotesi plausibilissima, certo, anche per me, dal momento che ritenevo inconcepibile che si potesse ignorare una cosi favolosa magione. Se cosi era, però, dovevano farlo di nascosto, aprendo solo le imposte del piano terra, e quindi facili da controllare. E io l’avevo viste sempre chiuse. L’eventualità che alloggiassero al piano terreno certo non la potevo escludere a priori, per quanto la giudicassi improbabile. Come supporre, infatti, che esseri all’apice della perfezione si adattassero a sistemarsi in un piano terra, piuttosto che al piano nobile? Non potevo però trascurarla del tutto. Per quanto potessi scrutare l’interno del giardino di nascosto a mia madre, e con complicità di una zia non sposata che viveva con noi, la quale doveva sollevarmi al di sopra del basamento in modo da poter infilare la testa fra i moduli mai sarei riuscito a penetrare con lo sguardo fino alla villa. La presenza di piante e alberi di ogni dimensione era tale, infatti, da impedire la visione al di la di un metro e mezzo o due. Ed era improbabile che i proprietari s’avvicinassero tanto. Con i suoi abitatori invisibili, la villa accresceva i suoi misteri. Mai avevo visto uscirne anima viva. Tanto meno aggirarsi al suo interno. Mi chiedevo, sempre più stupito, e anche assai deluso, se dovevo rassegnarmi per sempre a quella latitanza di umane presenze. Un giorno, però, in cui attraversavo come il solito l’incrocio di via Fratti con via Vespucci, con una mano in quella di mia zia, l’altra che reggeva la retina con dentro le piccole bocce di legno verdi e rosse, con le quali cercavo di emulare i bocciofili che gareggiavano nel pallaio a lato dello chalet Fabbri (originariamente casa di giardinaggio, poi lo chalet sul nominato, quindi, dal dopo guerra, l’attuale Trocadero), accadde l’imprevedibile. All’occhiata ormai distratta che mi ero abituato a lanciare lungo il vialetto, dal cancello principale, porta all’ingresso della grande veranda che s’affaccia sul giardino, corrispose il materializzarsi di una lucente, sfavillante vettura, imponente e sussiegosa che sotto i raggi del sole mandava riflessi che uncinavano gli occhi. Strattonai la zia, per potermi precipitare al cancello, e osservare meglio quel prodigio di vernici e cromature scintillanti, rischiando di provocare un incidente, a causa di un ciclista che per evitarmi rischiò di finire, far gli improperi del vetturino, sotto le ruote di una carrozza.
Mia zia acconsentì a condurmi davanti al cancello e a sostarvi, solo al ritorno della pineta. Giocai peggio del solito, quel pomeriggio, coi miei compagni, perché il mio pensiero andava tutto alla vettura appena intravista. In compenso, quando me la ritrovai davanti, il sole era calato, i rami di un grosso albero l’ombreggiavano in gran parte sicché era possibile esaminarla con maggior cura.
Da quel ho potuto ricostruire poi, scorrendo foto di auto su riviste specializzate, doveva trattarsi di una Lancia, così mi parve dal disegno del frontale. Probabilmente una Lancia Artena, un modello in auge negli anni Trenta, di gran prestigio, un po’ austera come credo fossero le automobili di quei tempi, con dietro una bauliera che a me parve enorme. Calcolai che sarei potuto starci comodamente, se non in piedi, certamente seduto. Di automobili ne avevo già viste circolare più d’una, ad esempio la Topolina del dottor. Paletti, il pediatra della maggior parte dei bimbi di Viareggio medico capace e rispettato, di cui avevo grande considerazione, un po’, forse, anche in virtù della sua vetturetta. L’automobile che avevo davanti agli occhi, e che catturava il mio sguardo avido, stazionava immobile, senza nessuno sopra o intorno, per cui pareva apparsa li senza bisogno di intervento umano. Ho detto immobile, e non ferma, perché quest’ultimo termine implica il concetto di qualcosa che prima di fermarsi era in movimento. Mentre l’oggetto che stavo fissando sembrava esaurire la sua essenza nel trovarsi lì, in quel momento, senza necessità di giustificare la sua presenza con altre funzioni; per l’appunto il moto.
Siccome però sono sempre stato, per natura, piuttosto restio a rifugiarmi, quando non capivo qualcosa, in voli pindarici, o credenze balzane, pensai bene, più prosaicamente, di chiedere lumi a mia madre. La quale fu laconica: “L’ha portata lo chauffeur”. Come se quella parola non aprisse un’altra falla nell’idea che mi ero fatto della villa in particolare e nel mondo in generale.
“Chauffeur” Quale nuova identità faceva la sua comparsa nel mio immaginario gia sovraffollato da una miriade di perché (per la verità lo è ancora)? Quel nome straniero, a me totalmente sconosciuto, accresceva, invece di dissiparli, i misteri intorno alla villa. Chi poteva celarsi dietro tale epiteto? Dovetti ricorrere nuovamente a mia madre. Che questa volta non spese nemmeno una sillaba. Prese una rivista, la sfogliò, l’aprì alla pagina cercata, e con il dito m’indicò una fotografia dove campeggiava un essere – un uomo? – tutto vestito di nero, con in testa una sorta di cuffia pure nera, di pelle suppongo perché luccicava, sovrasta- ta da due occhialini retti da un cinturino pure nero, guanti neri, gambali neri, e pantaloni a coscia – di pelle anche essi? – neri, come tutto il rimanente. Rimasi interdetto. A mistero s’aggiungeva mistero. Chi poteva essere quell’individuo dall’aspetto piuttosto inquietante? Cercai di ripescare tra gli eroi dei miei album illustrati qualcuno cui raffrontarlo, senza riuscirvi. La figura della riproduzione usciva fuori da tutti i miei canoni conosciuti. E in fondo trovavo logico che fosse così: essendo personaggi enigmatici i proprietari della villa, niente da stupirsi che lo fosse, per qualche verso, anche chi aveva il compito di provvedere ai loro sposta- menti. M’imposi di immaginarlo come una sorta di Mercurio, e la sua automobile come una macchina volante con la quale condurre i suoi padroni in giro per chi sa quali viaggi.
Precorrendo elicotteri, e aerei a decollo verticale, mi convinsi che doveva lasciare la villa semplicemente staccandosi da terra, e fuggir via sorvolando la pineta.
Divenuto più grandicello, e quindi più raziocinante, presi coscienza che le mie fantasie erano, per l’appunto, solo fantasie, e che la macchina quando usciva dalla villa, passava, come avrebbe fatto qualsiasi altra auto mortale, attraverso il cancello. Siccome, però accadeva di rado, e più di rado ancora a me era dato di assistervi, i padroni continuarono a conservare a lungo, per me, il loro alone di mistero. Cresciuto ancora, assistei per la prima volta all’aprirsi del cancello principale, e al passaggio della nera berlina che mi sfilò via davanti rapida, silenziosa, senza che avvertissi il rumore del motore, talché, per un attimo, fui riafferrato dagli antichi dubbi: la macchina si muoveva sì, con le ruote per terra, ma sospinta da qualche forza innaturale. A sciogliere, però quest’ultimo dilemma, provvide una donna che insieme a me, e una sua amica, aveva assistito all’evento. «Sono i conti di Sant’Elia», bisbigliò ai nostri orecchi, in tono di soggezione e di rispetto, quasi scaturissero dal possesso della ricchezza e dall’appartenenza a un ceto superiore. «Che automobile!» le corrispose l’amica «è così cheta che pare sia spinta da un vento invisibile». E lei: «Ma non lo sai che i motori dei signori non fanno chiasso?!» «Già, si dice che nemmeno le loro pizzette lo facciano» rise sguaiatamente l’amica. «Zitta, ignorante, che qui c’è una creatura». Malgrado lo scambio irriverente tra le due donne, la notizia che la villa apparteneva a dei conti mi gratificò. Mi pareva giusto che una casa come quella fosse abitata da nobili, conti come minimo, anche se avrei preferito si trattasse di qualche maragià, o altro principe orientale di cui avevo sentito decantare la munificità, e il numero di mogli e concubine.
Speranza di poterla visitare un giorno, la villa, come avevo sempre desiderato, ora che avevo saputo chi erano i proprietari, non ne avevo più alcuna. Troppa mi appariva la distanza fra me e loro. La loro riservatezza, a me undicenne, sembrava inscalfibile. E invece la possibilità si presentò sotto le spoglie di un giovane militare germanico, appartenente al comando tedesco che dopo gli avvenimenti del 1943 si era istallato nella villa. Incuriosito, e poi intenerito, dal mio continuo osservare, con occhi fruganti, muri, porte finestroni e terrazze, un giorno si avvicinò a me e a mia zia e le chiese il motivo del mio interesse. Alla sua risposta c’invitò a entrare e ci condusse all’interno dell’edificio. Non l’avevo immaginato tanto grande. Il numero delle stanze era, per me, incredibile. Da perdervisi. E, senza la nostra guida, ciò sarebbe senz’altro accaduto, perché anche mia zia stentava a orizzontarsi fra ballatoi, corridoi e corridoietti, disimpegni, scale principali e secondarie.
La grande terrazza su via Vespucci mi abbacinò, e altrettanto fece la corrispondente veranda sottostante, con le luminose finestre ad arco. Ma un’autentica sorpresa fu, nel grande salone decorato da affreschi, pitture parietali raffiguranti alberi della felicità orientaleggianti alternandosi a composizioni floreali sorrette da putti, e specchiere dorate, soffitti intarsiati di stucchi, ori e blu, il grande dipinto di Giuseppe Biasi, raffigurante un principesco matrimonio persiano, con elefanti, baldacchini, vesti dorate, monili preziosi, veli e turbanti. Mi sentii proiettato in piena atmosfera salgariana, in quei paesi dove Salgari aveva ambientato la sua epopea dei pirati, una delle mie letture preferite in quel periodo.
Non avevo fatto gran caso, sulla terrazza, a due oggetti impacchettati alla maniera di Christo. Svettanti verso il cielo, lì per lì mi avevano fatto l’impressione di due grandi ombrelloni incappucciati. Ma la loro vera natura si rilevò nella sera del 2 novembre 1943, verso le otto. Stavamo cenando, le finestre avevano grandi tende blu a causa dell’oscuramento, solo quando si udirono i primi scoppi mio padre si affacciò nella corte. Il cielo grondava di bengala, le strade e le facciate delle case erano illuminate a giorno e dalla terrazza della villa le mitragliatrici sparavano traccianti contro aerei invisibili.
Fuggimmo in pineta, arrivava gente da tutte le parti, s’era diffusa la voce – non ho mai saputo se avesse qualche fondamento – che gli Alleati non avrebbero mai bombardato quel luogo, per riservare agli abitanti una via di scampo. Si trattava del primo bombardamento aereo di Viareggio, e la confusione era al massimo. Qualcuno sosteneva addirittura che di bombe non ne era caduta neanche una in tutta Viareggio. Poi cominciarono a giungere coloro che venivano dalle zone colpite, la stazione vecchia, il cavalcavia, via della Gronda, via Pinciana. Alcuni erano feriti, ambulanze e auto requisite correvano verso l’ospedale, le cifre presero a rincorrersi, 15 morti, 20 morti, intere famiglie distrutte, i morti sono 49, no, 80, ma che dite, ce n’è almeno il doppio. Tornammo a casa a notte fonda, d’ogni parte era buio, la villa l’intravedevo appena, sulla terrazza sentivo i passi pesanti dei soldati ancora all’erta, i comandi concitati degli ufficiali. Giunse anche il momento della Liberazione. La vita ricominciava, bisognava leccarsi le ferite, sopravvivere e arrangiarsi, almeno per il momento.
Un bel giorno anche la villa tornò a vivere. Mi parve di buon auspicio che, a guerra appena ultimata, riaprisse i suoi battenti per un evento fausto dopo tanti anni infausti: il matrimonio di una padroncina, contessina di S. Elia, giovane e delicatamente bella nel suo abito bianco lungo che modellava il corpo, con un alto ufficiale inglese, l’ammiraglio Stone, nella sua bianca divisa della Marina.
Poi vennero gli anni del degrado. La magica villa trasformata in pensione. Sul lato di via Fratti, scomparsi i moduli di cemento della recinzione, forse dai tempi della guerra, e mai sostituiti. Al loro posto un retino plastificato, come se invece di un giardino ci fosse un campo abbandonato. Fino all’invasione degli extracomunitari, e alla riduzione di ogni stanza a appestante latrina. Oggi però, alla villa si preparava un futuro quale migliore non si potrebbe auspicare. Diverrà, sventati i rischi che la volevano trasformata in residence o in appartamenti, sede di un Centro studi sul Liberty alle dipendenze dell’Ufficio Cultura del Comune, che più consona ubicazione non avrebbe potuto trovare. Biglietto da visita prezioso per chi verrà a visitare o soggiornare a Viareggio.